Caserta. “L’attore, quando entra in scena, si deve vedere che viene da lontano”, si diceva un tempo e mantenere fede a tale, implicita regola era un “must” per coloro i quali volessero cimentarsi con la più antica arte scenica. Una direttiva ben precisa, o meglio, una massima d’esperienza, capace di fornire un bagaglio tecnico all’attore e di svolgere altresì, per chi guarda, una funzione critica. Un vero e proprio standard di qualità che consenta, sul sacro luogo della scena, di consumare quella dimensione altra del teatro.
Così, alla visione dell’ultima replica di “Malacrianza”, regia di Michele Pagano, il pubblico risulta catapultato in una lontana e futuristica “Nave dei folli”, per citare, iconograficamente, il fiammingo Bosch e la rappresentazione grottesca degli umani vizi. Nella produzione della Compagnia “N.A.P.S.” di Officinateatro, vediamo, infatti, il delirio di alcuni sciagurati alle prese con la propria sorte, nelle tre giornate antecedenti l’apocalisse di un fantascientifico 24 dicembre.
L’evento catastrofico si snoda nella vicenda umana di ciascun personaggio, nell’ottica di una coralità ben architettata e contraddistinta da una notevole ricerca linguistica, che richiama senz’altro l’avanguardia napoletana, ma anche il seicentesco barocco del Basile.
“Malacrianza” è liberamente ispirato alle opere di Roberto De Simone, dove la parola è costantemente pervasa da suoni e suggestioni, come a voler tradire l’univoco senso del piano verbale. Lo spettacolo, ben presto, diviene metafora per veicolare significati ulteriori rispetto alla trama che, a colpi di cedimenti, si abbandona alla speculazione filosofica, donando a chi guarda il privilegio assoluto della riflessione. Senso e forma, comico e tragico, sono alcuni dei binomi intercettati nello spazio senza tempo della scena. Travestimento e denudazione vengono, sovente, celebrati nell’iconico “Ginziello”, interpretato impeccabilmente da Antonio Avenia, che nella perdita della sua bambola-figlia rivive il trauma dell’infanzia negata.
Il teatro nel teatro – come Genet insegna – si risolve plasticamente nella visione esilarante del miserabile ed improvvisato regista, Don Pacicco, interpretato da Umberto Pappadia, che tenta goffamente di costruire il personaggio della Vergine Maria, sullo sfondo sogghignante di un malefico trio (Corrado Del Ganzio, Francesco Massaro e Carmine Claudio Covino).
Tanti sono gli spunti indagati da Pagano che, volutamente, ha inteso dare forma ad uno spettacolo di carattere mistico, aulico e popolare insieme, come i suoi variegati personaggi, capaci di mescolare le fondamenta dell’antichissima Commedia dell’Arte fino alle interferenze più contemporanee. Libero da pretese definitorie, oltre la ratio didascalica del teatro convenzionale, “Malacrianza” getta lo spettatore nell’universo immaginifico della finzione, che, però, detiene il pregio di mostrare il gesto significante, la parola poetica, l’immanente verità.