Milano. Visibile su Netflix dallo scorso marzo, “My name is Loh Kiwan” è un film sudcoreano del regista Kim Hee-jin, del genere drammatico/romantico, tratto dal libro di Cho Hae-jin pubblicato nel 2019 con il titolo “I met Loh Kiwan”.
Un’opera di 2 ore e 13 minuti, dove i personaggi parlano poco e quando lo fanno – soprattutto il protagonista, interpretato dal famoso Song Joong-ki – dicono perle di saggezza; nel complesso tutti, però, comunicano molto.
E questo, grazie alla capacità di scrittura dei personaggi, lineari e stabili, come afferma lo stesso Song, che in un primo momento, alla lettura del copione, aveva rifiutato la parte per poi ripensarci alcuni anni dopo.
Inizialmente egli non aveva trovato credibile che un uomo scappato dalla Corea del Nord, perché perseguitato dalla polizia locale per avere partecipato a una manifestazione di protesta per la morte ingiusta di un uomo, avesse cercato asilo in Belgio e lì fosse stato costretto a molteplici peripezie per dimostrare la nazionalità nord coreana fino ad innamorarsi di Marie (l’attrice Chi Sung-eun).
Con una maturità acquisita e, quindi, una maggiore sensibilità, Song aveva compreso poi come fosse proprio l’affidarsi all’altro – fondamento dell’amore – la ragione per la quale le persone hanno la forza di resistere in situazioni estreme.
Che sono quelle che Loh Kiwan si trova ad affrontare: solo in terra straniera, senza capire una parola di francese né di inglese e con a disposizione solo pochi dollari insanguinati ricavati dalla vendita del corpo morto della madre, al locale Ospedale coreano.
Mentre i tempi della burocrazia per vedere riconosciuto il suo status di rifugiato politico e, quindi, gli agognati sussidi, lo costringono a utilizzare un bagno pubblico come casa e a sopravvivere con i pochi centesimi ottenuti dalla raccolta del vetro.
Quando, una notte, trovato chiuso il bagno Song viene picchiato e deriso da un gang belga, allora bagnato e infreddolito si addormenta accanto ad una lavatrice a gettoni della quale intende sfruttare il calore del motore.
In quel momento i soldi conservati gelosamente nel portafogli accanto all’unica foto che lo ritrae piccolo con la madre, nei pressi della capitale della Corea, gli vengono rubati da Marie, anche lei di origine coreana, promessa della squadra belga di tiro al volo, persa da tre anni in un giro di droga e scommesse clandestine, dopo avere scoperto che suo padre aveva praticato l’eutanasia alla madre gravemente ammalata.
Ed è questo evento che rappresenta la svolta per entrambi i protagonisti: Song riesce a liberare Marie dallo spacciatore e a sua volta a dimostrare la propria nazionalità, diventando libero di lasciare il Belgio e decidere così il proprio destino.
Questo film è l’occasione, per chi non lo avesse ancora fatto, di avvicinarsi alla cinematografia sud coreana, che è ancora in fase emergente e quindi libera di esprimersi, perché lontana dal business hollywoodiano.
I film coreani non sono chiusi in rigidi schemi, le storie sono in grado di raccontare da una parte l’intimità dell’animo umano, grazie anche alla capacità espressiva degli attori, e dall’altra di essere strumento di denuncia sociale.
In un cinema libero dagli standard occidentali c’è grande spazio per la personalità dei personaggi, costruiti con spessore, in grado di esprimersi anche senza utilizzare le parole, grazie a sapienti e costruite inquadrature che vanno a cogliere gesti, sguardi, tutto per offrire una pellicola diversa da quella cui gli standard americani ci hanno abituati.