Caltagirone. Incontriamo Joe Schittino, raffinato compositore nato a Siracusa nel 1977, dal 2017 Direttore dell’Istituto Musicale Pietro Vinci di Caltagirone. La sua musica (opere, lavori sinfonico-corali, vocali, cameristici) è recensita su riviste autorevoli (L’Opera, BBC Music Magazine, StarsSystem Magazine, Neue Musikzeitung); radiotrasmessa da ZDF, Deutschlandradio Kultur, Hessischer Rundfunk, RAI Radio3; edita da Suvini Zerboni, Edition Gamma, Ebert Musikverlag; commissionata ed eseguita da solisti ed enti di prestigio (Maison d’Éducation de la Légion d’Honneur, Cité Internationale des Arts, Musikverein Osnabrück, Else-Lasker-Schüler Gesellschaft, Stelzenfestspiele bei Reuth, Delta Saxophone Quartet, Istituto Nazionale del Dramma Antico, Orchestra Filarmonica Italiana, Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Lirico di Cagliari, Teatro Massimo Bellini di Catania) ed applaudita in tredici Paesi europei, Regno Unito, Russia, Taiwan, Iran, Cuba e USA. Nel maggio del 2019, una sua composizione è stata premiata nell’ambito del Concorso “Karl Czerny” indetto da SIEDAS – Società Italiana Esperti di Diritto delle Arti e dello Spettacolo. Incontriamo, dunque, un giovane artista che, però, vanta già una carriera di rilievo internazionale.
A qualche giorno dalla fine del lockdown è più che mai vivo il dibattito sulla riapertura dei teatri e delle sale da concerto. La carriera di molti autori, artisti e lavoratori dello spettacolo dal vivo ha subito un arresto dovuto all’emergenza COVID-19. Quali prospettive secondo te, e quale futuro per la musica dopo il primo passo verso la normalità?
I percorsi della musica e dello spettacolo in generale condividono con la mitica Fenice l’attitudine a morire e rinascere ciclicamente, per una guerra, un cataclisma, un mutamento sociale travolgente e improvviso che letteralmente “spazza via”, o nella migliore delle ipotesi mette in seria difficoltà, generazioni di artisti. Stavolta la guerra ce l’ha fatta un virus: l’infinitamente piccolo ha dissolto stagioni liriche e festival, mandato in fumo progetti e a casa maestranze, messo nell’imbarazzo gli operatori della cultura. Io stesso ho avuto appena il tempo di assistere a due prime assolute di grande prestigio dedicate alla mia musica, la cantata Passio Sanctæ Agathæ il 1 febbraio scorso al Teatro Massimo Bellini di Catania, e L’Opera Minima il 9 febbraio al Teatro Municipale di Piacenza: dopodiché è calato il sipario, una vera parete tra un passato che sembra lontanissimo e un futuro su cui la nostra generazione si stava già giocando la scommessa di una vita. Da una parte è stato un fiorire di proposte alternative, casalinghe, alcune molto poetiche e fantasiose, degli artisti affacciati alla finestra di Facebook impegnati a non morire, a non farsi dimenticare (un artista senza chi lo applaude è come Cristoforo Colombo sulle Alpi). Dall’altra parte resta la paura di non riuscire a recuperare non soltanto il pubblico (quanto tempo passerà prima che la gente si fidi di nuovo e torni a condividere il contatto gomito a gomito col vicino di poltrona? I duecento spettatori consentiti in uno spazio nato per contenerne millequattrocento sono un pugno allo stomaco), non soltanto i soldi per la programmazione degli spettacoli, ma la motivazione stessa del recarsi a vedere un’opera, ad ascoltare un concerto. Sicuramente gli streaming dei grandi capolavori del passato ci hanno fatto sentire meno soli, ma vanno presi per ciò che sono: testimonianze autorevoli che appartengono alla Storia. Non sono lo spettacolo dal vivo: quello lo facciamo noi per il pubblico del nostro tempo. Polvere, odori, sudori, emozioni e fatiche sono di chi vive oggi sulla Terra lo stesso soggiorno nello stesso arco temporale. In questo senso credo fermamente nella grande possibilità che ha adesso la musica contemporanea, e specialmente il teatro musicale, di porsi come il giusto riscatto e la risposta ideale sia alla crisi del teatro di tradizione che alle mutate condizioni economiche, che suggeriscono mise en scène ricche di idee e povere di sfarzo, e spettacoli finalmente adeguati alla sensibilità del nostro tempo (com’era il grande Teatro ateniese). Le mie recenti esperienze mi hanno confermato che, a dispetto di quanto si crede, anche un’opera lirica composta oggi può riempire una sala, e anche emozionarla – nel mio caso è stato fondamentale, a Piacenza, l’incontro con Cristina Ferrari, direttore artistico che crede moltissimo nei giovani compositori e che guarda consapevolmente sia al grande passato che a un futuro che abbiamo ancora il privilegio di creare in prima persona. Sono convinto che i nuovi autori porteranno nuovi spettatori, nel senso di “rinnovati” dentro: persone che vanno a teatro portando con sé la loro fragilità, le loro insicurezze, la loro dolcezza, i loro tabù. Gli autori risolvono dubbi, presentano letture, propongono risposte: raramente pongono domande che non siano già, inespresse e compresse, nel cuore del pubblico. Mi piace pensare agli artisti come i recettori, le casse di risonanza, gli esecutori materiali di un’istanza di poesia proveniente dalla loro intera generazione.
Con l’esperienza del restare a casa si è assistito giocoforza al mutare non solo della percezione del tempo e della gestione di gran parte dei contatti umani, ma anche di abitudini creative prima consolidate. In che modo è cambiata la tua giornata e la visione di te stesso in quanto compositore?
La mia visione del tempo è bergsoniana: nella mia vita contrazioni e dilatazioni si sono sempre scontrate con lo scorrere ostinatamente uguale, e illusorio, delle lancette dell’orologio o dei numeretti sul quadrante dello smartphone – tanto più che, da compositore, mi ritrovo a progettare, a creare dal nulla spazio, respiro, dimensione. Sono il regista della mia giornata, progetto il singolo minuto (con buona pace degli amici: ormai sanno che vivo su un altro pianeta e mi perdonano il ritardo imbarazzante con cui rispondo ai messaggi). Il mio orologio non ha le lancette, ma un’asticella: è il metronomo, che va più lento o più veloce a seconda di ciò che sento, e non necessariamente soltanto con le orecchie: si ascolta molto di più col cuore che non con la mente. Nella mia musica è sempre presente una dimensione giocosa a livello di sistema, che quindi investe anche la gestione della storia evocata (e quindi del tempo): il difficile è riuscire a rendere invisibile il lavoro, a far sembrare facile ciò che è difficile. L’artificio, quando non è stupidamente esibito, fa la differenza rispetto a una narrazione comune in quanto, come si sa, l’invisibile agisce sui piani più sottili. E in questo senso, da una parte la mia giornata è diventata di mille ore o anche di dieci secondi, ossia ha recuperato il suo stato naturale, e la comunicazione con gli altri si è assestata su una dimensione in fondo a me più congeniale (gli amici sono nel cuore, non servono dimostrazioni di presenza per farci capire quanto si continui a volersi bene reciprocamente); dall’altra ho assistito a un rimodellarsi del modo stesso in cui mi siedo al mio tavolo di laboratorio. Principalmente perché il tavolo, da una banale scrivania, è ridiventato la tastiera di un pianoforte; e poi perché sono tornato a scrivere la musica sulla carta, come facevo da bambino. Ho avuto la fortuna di vivere una “reclusione dorata” in uno dei più bei palazzi del Settecento siciliano, dove da tre anni vivo ospite della Contessa Bartoli Gravina fra i cui antenati figurano compositori e notabili in ogni campo dello scibile, e di comporre tutto il giorno su un Bechstein di metà Ottocento appartenuto a Franz Liszt; ciò non mi ha impedito di rimanere me stesso in tutto e per tutto, e anzi il rapporto con la Storia vissuto così da vicino è diventato nella mia immaginazione un luogo onirico fecondo di sensazioni misteriose. La riscoperta del manoscritto è stata una rivelazione per me: fino a poco tempo fa mi capitava di prendere appunti nervosi e stenografici ai tavolini del caffè e su tutti i mezzi di trasporto, ma il lavoro reale di costruzione della partitura lo facevo al computer; ed era naturale che fossero, a lungo andare, certi automatismi dello stile e della memoria a costruire il pezzo. Vedere ora nascere nota dopo nota la mia musica, assisterla, coccolarla fisicamente tra le dita, macchiarmi d’inchiostro, mi rende felice. Il software ti fa il vestito, ma il corpo, la sostanza, sta nel manoscritto. In una macchia, in una piega della carta, si nasconde a volte un’emozione, una distrazione, una divergenza – o un parallelismo, chi lo sa. Trovo incredibilmente poetici e dolci i ripensamenti, gli indugi, le cancellature nel manoscritto. Col pc sarebbe impensabile: non resta traccia del mutamento del pensiero, tutto è sempre pulito, asettico, aggiornato all’ultimo salvataggio. Ma a non salvarsi è la storia del percorso fatto per arrivare a quel risultato, storia che ora mi intriga immensamente. La duplice stesura del brano, prima su carta e poi su file, non mi rallenta: posso dire di non aver mai composto tanto (e tanto meglio) in un tempo così breve.
Nella tua musica sono spesso presenti titoli ispirati o derivati da opere extramusicali (dipinti, romanzi, eventi storici). Ciò fa della tua una “musica a programma”? Ti definisci un autore “al quadrato”?
Le variabili sono tante: se devo comporre musica per la scena, se ho una commissione specifica, se posso comporre per me stesso. Questo mi piace di meno: comporre è come cucinare, lo fai meglio se lo fai per gli altri. La curiosità mi porta a cercare ispirazione, a rievocare (ma mai a “descrivere”) praticamente di tutto, dalla formula chimica al quadro di Otto Dix, al romanzo di Sergio Atzeni, all’epigramma di Kipling, al personaggio di Wodehouse. Nel mio catalogo sono anche tanti i titoli “assoluti” che rimandano alla tradizione: sonate, concerti, quartetti, suite. Manca ancora la sinfonia: dico sempre che inizierò a comporne da grande, ma più tempo passa e più piccolo divento! In ogni caso, ci sono due ingredienti fissi nel mio lavoro creativo: la memoria e il ludus a vari livelli di combinazione, reale o simbolica. Il mio rapporto con i compositori del passato mi piace spiegarlo con un racconto dalla mia infanzia: in visita al cimitero, fui talmente colpito dalla foto di una bella signora dei primi del ‘900 che domandai a mia madre se la conoscesse: lei allora era troppo piccola, e ne aveva solo un vago ricordo; mia nonna invece la conosceva, e la liquidò definendola una persona dispettosa e orribile. Ma per me, bimbo ignaro, la tipa poteva benissimo essere una fantastica e gentile signora che fa i dolci la domenica mattina! Così, più le generazioni si allontanano dallo stesso “oggetto”, meno condizionamenti ne subiscono: il nazismo sgomenta e disturba nel profondo, ma certo non altrettanto le guerre puniche o la battaglia di Cheronea, senza nulla togliere al loro status di disgrazie e allo spargimento di sangue e lacrime che provocarono. Il pubblico del Risorgimento non è lo stesso dell’epoca del “selfie time”: e allora perché alcuni autori riescono a emozionare sempre, al di là di tutti i contesti storico-sociali? Che il tempo-Storia sia molto più fluido (e, nella fluidità, più statico, in avanti e indietro) di quanto si creda? Ci sono in realtà alcune costanti a generare movimento: sono le emozioni, le stesse che provavano ai tempi di Tamerlano e che proviamo anche noi nel 2020. Così, nella musica, il mio atteggiamento è quello del bambino, di totale apertura: col passato si può giocare, ma non mettersi in conflitto o, peggio, in competizione: non ci sono le premesse per un confronto reale con chi ci ha preceduto, ma certamente possiamo ispirarci alla forza di chi riteniamo un maestro per percorrere la nostra personale strada. E quindi non mi ritrovo in nessuna corrente specifica, intesa come habitus: non sono neoclassico, non strutturalista, non postmoderno. Nella mia musica non c’è alcuna traccia di ironia nel senso, “al quadrato”, di un impossibile dialogo alla pari con la classicità; non c’è la coazione minimalista al farneticare ripetendo e deformando al limite dell’ecolalia; non ci sono deliri intellettualistici, né “ricerca” a tutti i costi. Che cosa c’è allora nella mia musica? Io ne so meno di tutti!
Come componi un pezzo? Hai dei segreti di laboratorio?
Premesso che la Musica è un mistero proveniente da un piano di esistenza diverso dal nostro, e che io mi ritengo privilegiato perché da compositore imparo a riconoscerne alcuni meccanismi di codificazione, lascio sempre che il brano, a partire da una “scintilla” iniziale che può essere un intervallo, un odore, un colore, cresca liberamente nella mia immaginazione scegliendosi da sé percorsi, ritorni, cesure, divagazioni, in un terreno creativo in cui la forma tende fortemente a diventare contenuto: possono passare giorni in cui non scrivo nulla, ma in realtà la musica mi “lavora” in testa. Non potrei approntare mai uno schema, una griglia di partenza a tavolino: non trovo utili procedimenti che in mano mia dovrebbero subire così tante deroghe, eccezioni e varianti da annullare il senso stesso della pianificazione. Io pretendo libertà, aria, respiro quando compongo. Cammino, canto, amo, mi preparo un caffè dopo l’altro. Poi inizio la stesura, e sono solitamente molto svelto. Non ho bisogno di silenzio e solitudine: ho composto in fattorie piene di cani e bambini vocianti, e in presenza di persone che ascoltavano altra musica a tutto volume. Lavoro per grandi campiture e poi intervengo sul dettaglio delle articolazioni e delle dinamiche: a volte ho bisogno di ascoltare e riascoltare, suonare e risuonare centinaia di volte lo stesso passaggio, sia per godermelo che per capire esattamente dove vuole andare, che cosa significa. Non è detto, infatti, che io capisca sempre dove sto andando con la musica. Però mi piace così: adoro perdermi, assistere al percorso. Mi piace lasciarmi investire dall’emozione, dalla sorpresa, dalla gioia di star portando giù dalle nuvole qualcosa che un secondo prima non esisteva. E sono anche felice di poterlo dire qui e adesso, quando gli integralisti seriali e gli altri fossili delle avanguardie hanno ormai cessato di tuonare contro i giovani, stigmatizzando come sconveniente qualunque atteggiamento creativo che avesse anche lontanamente a che fare con le emozioni. Io adoro emozionarmi, adoro ridere, piangere, fare il ridicolo: e naturalmente adoro farlo fare anche agli altri. Da artista posso condurre le emozioni del pubblico, posso giocarci: è una grande responsabilità che mi prendo volentieri. Quando sento, durante le esecuzioni dei miei brani, che loro si stanno emozionando nello stesso punto in cui anche a me è successo, allora sì, tutto funziona ed è gioia pura, che si rida o si pianga.