Napoli. Cosa resta se si fa a meno di trama e personaggi, se non ci sono altri luoghi, tempi o mondi? Se persino di fare un’azione, anche la più piccola, non si avverte più il bisogno? Tre attori, lì, “buttati”, davanti agli occhi degli spettatori, tre attori in abiti quotidiani e lo spazio vuoto intorno danno vita a “Opera didascalica”, spettacolo scritto e diretto da Alessandro Paschitto, in scena stasera 31 ottobre alle ore 21.00 (in replica mercoledì 1 novembre) al Teatro Nuovo di Napoli. Vincitore del Premio Leo de Berardinis 2021 e del bando Call from the aisle 2021, Menzione Speciale Borsa Pancirolli 2020 e Selezione In-Box 2022, l’allestimento, presentato da Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Ctrl+Alt+Canc, vedrà interpreti in scena Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto e Francesco Roccasecca. Lo spettacolo è un sistema di tentativi che collassano uno sull’altro. Persone, prima ancora che attori, individui impantanati in uno spazio – quello del teatro stesso – vuoto, disallestito, nudo, perfetta immagine del nostro presente. «I nostri lavori – asserisce l’autore e regista Alessandro Paschitto – sono caratterizzati più dalla sottrazione della forma, rinunciamo ai meccanismi classici della drammaturgia e della messa in scena. Lavoriamo nel qui e ora, senza appigli. Per proseguire dobbiamo di volta in volta aggrapparci a qualcosa. L’assenza di una forma diventa la nostra forma: non potendo aggrapparci a niente, ci aggrappiamo alla caduta». “Opera Didascalica”, nel suo orizzonte concreto, più che riflettere sui massimi sistemi li riscopre nei dettagli. Le parole ricalcano il qui e ora, il presente, i fatti tangibili si alterano, si colorano di nuove sfumature. Si caricano di altri significati e lo sguardo dello spettatore si accende, iniziando a rimodellare ciò che ha davanti agli occhi. Il teatro, svuotato dei suoi elementi espressivi classici, manifesta diversa e laterale capacità di racconto. Un nuovo patto di credibilità con lo spettatore, più concreto, meno convenzionale, più direttamente coinvolgente. Dopo tentativi e tentativi, tutti rigorosamente fallimentari, in questo cumulo di ipotesi andate in fumo qualcosa sembra rimanere, forse non tutto è invano. C’è come un’eco, un sedimento che si cumula, un’impressione sempre più presente nel vuoto dello spazio e che si palesa attraverso il meccanismo della ripetizione. Lentamente si riscopre la capacità di accettare il vuoto, si impara lentamente a riconoscerlo, abitarlo. La scena diventa un’immagine vuota regalata allo sguardo dello spettatore perché possa riempirla di ciò che desidera. Chi era in scena lo raggiunge dall’altro lato per guardare. Cosa resta? Cosa c’è da vedere?