Bologna. Da giovedì 12 a domenica 15 gennaio sul palco del Teatro Arena del Sole di Bologna va in scena “Oylem Goylem”, spettacolo che nel 1993 ha portato all’attenzione di pubblico e critica Moni Ovadia, ad oggi uno dei più popolari uomini di cultura e artisti della scena contemporanea, noto per aver fatto conoscere la tradizione yiddish. Realizzato insieme ai musicisti della sua Stage Orchestra, l’opera è considerata un vero e proprio cult che, tra racconti umoristici, poesie e composizioni ispirate alla musica klezmer, immerge lo spettatore nella cultura ebraica della diaspora e dell’esilio. Una produzione Corvino Produzioni e CTB Centro Teatrale Bresciano.
Traendo spunto dall’ampio repertorio umoristico della tradizione ebraica, “Oylem Goylem” (in yiddish “Mondo sciocco”) è una creazione di teatro musicale costruita come un cabaret tragicomico, in cui Ovadia racconta il mito dell’ebreo errante: eternamente esule e povero, ma sempre fiero e dignitoso, la figura è narrata attraverso una serie di storielle che ne stigmatizzano i difetti con ironia o note satiriche. «L’umorismo ebraico autodelatorio – commenta l’artista – rivolto verso se stessi, contro se stessi, è una specie di sterminato patrimonio, come uno scrigno senza fondo, da cui escono perle di intelligenza».
Tra il laico e il religioso, una carrellata di battute fulminanti e citazioni dotte è accompagnata da canti liturgici e sonorità zingare, andando a comporre una pièce che riprende l’intreccio di stili, toni, umori e registri linguistici tipici del klezmer, genere musicale che fonde in sé strutture melodiche, ritmiche ed espressive provenienti dalle differenti aree geografiche e culturali con cui il popolo ebraico è venuto in contatto. In un’alternanza di citazioni sacre, versi poetici e riferimenti allo spettro di Auschwitz, i musicisti della Stage Orchestra passano dal canto dolente e monocorde che fa rivivere il clima di preghiera della sinagoga, all’esplosività delle ballate composte per le occasioni liete.
Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama «il suono dell’esilio»: in una parola, la diaspora. «Inscindibilmente legato alla condizione della dispersione – afferma il regista – non necessariamente definita da una condizione materiale, quanto piuttosto, da una condizione dello spirito, il krekhz eleva la sua provocazione, forse come protesta utopica ed impotente per richiamare l’Eterno dal “Suo Esilio”, supremo paradigma della diaspora spirituale dell’uomo».
La filosofia umoristica e la formula linguisticamente internazionale di Oylem Goylem si rivelano ancora vive e attuali dopo trent’anni, un potente ed efficace antidoto contro violenze, intolleranze e razzismi, vecchi e nuovi.
Crediti foto: Luca D’Agostino.