Firenze. Al Teatro della Pergola, da martedì 12 a domenica 17 febbraio, Lorenzo Gioielli dirige Pierfrancesco Favino ne “La notte poco prima delle foreste” di Bernard-Marie Koltès. Un poema per voce sola sui temi dell’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile.
“Non considero il testo – dice Favino – come un monologo: è un dialogo aperto con il pubblico. Veramente gli occhi delle persone che mi fissano dalla platea determinano come sono io, il mio essere, in quella determinata sera. La mia ambizione sarebbe quella di scomparire dietro a questo testo, non per umiltà, ma proprio per permettere al pubblico di dimenticarsi di tutto: di Sanremo, della popolarità, ed entrare così nelle parole, nei pensieri e nell’animo di Koltès”.
Gli argomenti assoluti di questo autore prematuramente scomparso a 41 anni affiorano quando un uomo, uno straniero, un estraneo, un diverso che ha tentato in tutti i modi di diventare un eguale, ferma nella pioggia un ragazzo, che sembra un bambino immacolato.
La traduzione è di Giandonato Crico e Pierfrancesco Favino, l’adattamento dello stesso Favino, le luci sono di Marco D’Amelio, il sound designer è Sebastiano Basile. Una produzione della Compagnia Gli Ipocriti Melina Balsamo.
Giovedì 14 febbraio, ore 18, Pierfrancesco Favino incontra il pubblico. Coordinano Riccardo Ventrella e Matteo Brighenti. L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.
Angoscia, disperazione, rabbia. Un uomo perso in una notte di pioggia e in una città che non è la sua. La vita è tutta lì: a un punto di non ritorno. Ferma un ragazzo, che si siede all’angolo della sua stessa strada. L’uomo inizia a parlargli come non aveva mai fatto con nessuno. Gli racconta della periferia e dell’amore, quell’amore così sconosciuto, eppure così vero. La notte poco prima delle foreste, rappresentato per la prima volta nel 1977 al Festival d’Avignone, descrive la solitudine urbana come pochi altri testi, prima e dopo. In fondo, Bernard-Marie Koltès racconta di una serata realmente accaduta in cui il drammaturgo francese, morto a 41 anni di AIDS nel 1989, incontra un uomo senza fissa dimora con il quale si ferma a discutere. Gli parla della sua condizione di straniero che, per Pierfrancesco Favino, ci riguarda tutti.
“Quante volte – afferma Favino ad Angela Consagra sul foglio di sala – ci sentiamo soli, quante volte ci piacerebbe trovarci altrove, quante volte vorremmo urlare che vogliamo prenderci del tempo per noi stessi, che vorremmo scoprire e indagare chi siamo. Queste pulsioni sono indipendenti dal passaporto o dalla condizione di essere dei migranti, in terra straniera: la grandezza del testo di Koltès – prosegue – è che rappresenta una condizione umana che non ha nazionalità. La richiesta che questo uomo compie è la stessa di Amleto o di Edipo: è un individuo che vuole essere uomo, riconosciuto con le sue debolezze, i suoi bisogni e le sue necessità”.
Favino torna alla Pergola dopo i successi di “Servo per due” e “La controra, tutti prodotti”, come “La notte poco prima delle foreste”, dalla Compagnia Gli Ipocriti, che oggi porta il nome della sua fondatrice, Melina Balsamo, scomparsa di recente.
“La nascita de “La notte poco prima delle foreste” è un omaggio a Melina Balsamo – ricorda – e alla sua memoria storica, da un punto di vista teatrale. Grazie alla sua fiducia nei miei confronti in passato sono riuscito a realizzare i primi spettacoli e la decisione di mettere in scena quest’opera è stata presa proprio per quello che sento di doverle, come artista”.
Su una scena scarna e essenziale, costituita esclusivamente da una sedia, Pierfrancesco Favino fa comparire come un prestigiatore storie di donne, di angeli incontrati per caso, di violenza ed estraneità, del bisogno che abbiamo degli altri e della paura che ci fanno. È il mistero dell’incontro tra esseri umani: ci cerchiamo e ci respingiamo, chiediamo aiuto e poi lo rifiutiamo.
“L’atteggiamento etico verso il lavoro è l’impegno a fare in modo che lo spettatore – interviene – sia profondamente coinvolto in ciò che vede sulla scena, che si senta veramente partecipe e non un semplice osservatore. L’uso di un particolare linguaggio in scena, una sorta di dialetto quasi, aiuta a sciogliere una certa letterarietà originaria del testo a vantaggio di un artificiale naturalismo, che però regala umanità al personaggio”.
L’intelaiatura de “La notte poco prima delle foreste” è un paradigma straordinario, il testo è fluente e irto nella sua prosa vertiginosa, aliena da punteggiatura ferma, tutta pervasa di anacoluti e biasimi come un romanzo-pamphlet di Céline.
“Di fronte a questo tipo di scrittura così apparentemente libera – ragiona Favino – priva di punteggiatura o di qualsiasi filo logico, se non quello dell’emotività, vieni come trasportato un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Io so che all’interno di me stesso, mentre faccio e dico lo spettacolo, intraprendo un percorso costellato di tappe emozionali, di certi appuntamenti nei quali ogni tanto mi ritrovo e che mi fanno comprendere il punto in cui siamo. È come se improvvisamente – continua – in alcune zone dello spettacolo una parte di me, una parte di quella energia che si crea in scena, mi aiutasse a costruire un’architettura composta da stazioni narrative che si susseguono: una via crucis strana, anche se nel testo, di per sé, non si ritrova questa logica drammaturgica”.
Si tratta di una lauda in forma di fuga, ripetizioni, parole che tornano cambiando di senso. Un classico moderno di abbagliante e umanissima bellezza, che fa risuonare in Pierfrancesco Favino qualcosa di profondo: le parole dell’uomo de “La notte poco prima delle foreste non sono le sue”, ma si perde e ritrova come se lo fossero.
“È una logica puramente esponenziale che riguarda chi sta in scena – precisa Favino – io cambio i movimenti recita dopo recita e le luci mi seguono; il disegno luminoso è dunque mobile: si tratta di una composizione scenica liquida, nel senso che è pronta a cambiare a seconda della relazione che si instaura con lo spettatore, ogni sera, in quel particolare momento. Vorrei che il pubblico si dimenticasse di me – conclude – e si mettesse in ascolto. L’ambizione è inarrivabile, ma sarei felice si creasse qualcosa di simile al miracolo del concerto di Keith Jarrett a Colonia”.