Milano. Ventitrè sono i racconti che compongono “Preghiera per i vivi” dello scrittore inglese di origine nigeriana, Ben Okri, editi da La Nave di Teseo. Trattasi di scritti sospesi nel limbo tra poesia e prosa, componimenti predestinati alla fusione per dare vita a un genere nuovo che possiamo definire “stoku”, ovvero il risultato di “short story” + “haiku”. Un’invenzione d’autore ma anche una forma di sperimentazione per celebrare la sua narrazione potente e umana, figlia di un’antica tradizione orale che affonda le sue radici nel magma del culto africano.
“È una forma che cattura lo scontro di realtà, sfiora il volto della realtà come l’ala di una farfalla: ha la delicatezza dell’haiku ma anche un piccolo elemento narrativo, che è importante per combinare gli elementi della realtà e del sogno” afferma l’autore in un’intervista, all’indomani dell’uscita nelle librerie d’Italia.
L’autore, tradotto da Elena Malanga, ci consegna delle storie in cui alberga la guerra, il martirio dei popoli, di tutti i popoli, il dolore della carne ma soprattutto le ferite profonde dell’animo umano che si trova catapultato nell’orrore senza vincitori né vinti, in cui lo sgomento cede il passo a ciò che di sacro ancora resta. “Preghiere per i vivi” getta il lettore nel tempo presente della narrazione, un tempo attonito, spezzato dall’odore di morte che si riflette nelle macerie circostanti. Un libro di estrema attualità, ahimè, che costringe a riflettere sulla barbarie che ancora e sempre costituisce la legge di natura dei paesi civilizzati.
La scrittura di Ben Okri si intinge di spiritualità che si ripercorre da una storia all’altra riuscendo magistralmente ad infrangere l’onirico costrutto dell’artificio letterario attraverso sprazzi di puro realismo.
“Dentro, tutto lo spazio era occupato dai morti. Ma l’aria non sapeva di morte. L’aria sapeva di preghiera. Le preghiere puzzavano più della morte. I morti, lì, erano morti diversi dai cadaveri che c’erano fuori”.