Napoli. Dopo avere incantato il pubblico la scorsa stagione interpretando “Storia di un oblio” – atto unico di Laurent Mauvignier nella traduzione di Yasmin Melaouah, diretto da Roberto Andò – Vincenzo Pirrotta con “Prigioni” è ritornato al Teatro San Ferdinando, questa volta oltre che interprete anche autore, regista e curatore dello spazio scenico insieme a Mauro Rea.
Lo spettacolo prodotto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, dall’attesa anteprima italiana del 16 gennaio, rimarrà fino al 26 dello stesso mese.
Lo spettacolo è articolato in singoli monologhi – alcuni dei quali raccontano di cronaca nera tristemente nota – legati da un unico filo conduttore, quello del dolore da cui i protagonisti, indipendentemente dall’età, dal genere, dal ruolo sociale e dall’evento in sé che l’ha scatenato, sono così attanagliati dal senso di solitudine e di abbandono da ripiegare completamente su loro stessi al punto da sentirsi imprigionati.
Ed è una gabbia fisica o mentale nella quale persistono anche per l’incapacità o mancanza di voglia di reagire che li porta in un labirinto, rappresentato da una serie di funi che vengono calate dall’alto e che ne impediscono il movimento, senza che siano messi in grado di vedere una via di uscita.
Tutto è amplificato da una totale indifferenza del mondo circostante, resa dal camminare lento, continuo e inesorabile degli altri attori nel proscenio, mentre ciascuno nella ribalta, di volta in volta, racconta la propria straziante storia.
Ed ecco allora la brava Manuela Ventura in “Allucinazioni ipnagogiche”, ossia una ragazza narcolettica che descrive il suo vissuto fatto di allucinazioni che sopraggiungono puntuali non appena si addormenta e dei tormenti che le danno quei ladri, alieni, demoni e mostri che in realtà esistono solo nella sua mente.
Poi è la volta di Anna Bocchino in “Ne vale la pena”, che ha reso bene il martirio e le persecuzioni subite, rea di professare il suo credo religioso, qualunque esso sia, e, nonostante i dubbi che la sopraffanno, conclude con l’idea che valga la pena subire in nome di un principio, un’idea o Dio.
Ancora, “La ragazza e il mare” con Eleonora Fardella e l’aggressione subita in un container dove viaggia rinchiusa – probabile vittima di tratta? – ammassata come oggetti stipati, stretti, insieme ad altre donne e la sua capacità di farci percepire la sensazione sgradevole di bagnato accompagnato dall’odore di ruggine che la goccia caduta dal soffitto del container sulla sua guancia porta con sé.
Toccante il racconto della violenza di gruppo subita, con in mente solo una domanda “perché chi pensava che l’amasse le ha fatto tutto questo”.
Nicola Conforto è un hikikomori che ha ridotto il mondo alla sua stanza, dove si sente sicuro e protetto, dal quale non ha intenzione di uscire da sei anni, arrivando anche a innamorarsi di una sua amica immaginaria, che ha chiamato con il nome di un manga, i fumetti che gli hanno salvato la vita.
Filippo Luna è un cardinale che però non rinuncia ai piaceri della carne ed è tormentato, sempre in bilico tra i desideri terreni e il ministero religioso.
Infine, Vincenzo Pirrotta veste i panni di quel fanatico religioso che l’11 febbraio del 2024 ad Altavilla Milicia (PA), durante la notte, si sarebbe svegliato farneticando di aver percepito presenze demoniache in casa, e con l’aiuto di una coppia di conoscenti “fratelli in fede” ha ucciso la moglie e due dei tre figli per liberarli – a suo dire – dal diavolo, per poi consegnarsi ai Carabinieri.
Alfredo Mundo è la bella voce di “Anima napoletana” che chiude le singole narrazioni e ne tira le fila.
Ma se nel 2024 il monologo di “Storia di un oblio” si svolgeva in uno spazio ricavato in platea una volta eliminate le poltroncine rosse, ora gli attori sono tornati a calcare il palcoscenico, rompendo la cosiddetta quarta parete solo nel finale, scendendo tutti dal palco e cercando materialmente il contatto fisico e visivo del pubblico.
Sin dalla prima scena risulta lampante l’impronta del teatro classico, ricordiamo che Pirrotta si è formato presso la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, al pari di Filippo Luna.
Ad apertura di sipario gli attori, a mo’ di coreuti, dal fondale avanzano in formazione compatta verso il centro del palcoscenico, muovendosi proprio come un personaggio collettivo del coro greco, con indosso un lenzuolo bianco e una maschera pure bianca a coprire integralmente il volto, per poi spogliarsene rimanendo con una maglia ciascuna di un colore diverso, probabilmente a personificare le emozioni che non sanno gestire. Cantano una melodia in dialetto siciliano a mo’ di litania guidata da Serena Ganci.
Quest’ultima posizionata su una struttura in metallo mobile con al piano superiore una postazione da dj set, in fondo un moderno corifeo esegue e canta suoi brani, nati da un confronto continuo con Pirrotta e la struttura drammaturgica del suo lavoro.
La nota cantautrice e musicista non è nuova a esperienze di questo tipo, dal 2013 infatti ha iniziato un importante sodalizio con la regista Emma Dante con la quale è andata in scena come performer e compositrice con “Io, Nessuno e Polifemo”, poi ha lavorato come compositrice per “Odissea A/R”, ” Le Baccanti” e nel 2018 per il ciclo delle tragedie greche di Siracusa “Eracle”.
In “Prigioni” ha mescolato strumenti acustici come pianoforte, tamburi e voce e strumenti elettronici come loop station e sintetizzatori per dare un’impronta contemporanea a un senso del sacro da cui è impregnato tutto il dramma.
La musica riesce da un lato a dare il carattere di volta in volta differente alla disumanità narrata, esaltando in alcuni casi i tic e le ripetizioni del corpo di ciascuno, testimoni delle singole angosce, e dall’altro a essere un faro di speranza, l’unico a dire il vero di tutta l’opera. La musica, le canzoni sono fondamentali nell’incedere della storia perché ne danno il ritmo e il carattere.
Ricordiamo i versi di Patrizia Cavalli con cui Serena Ganci ha composto una canzone per un lavoro al carcere dell’Ucciardone di Palermo: “Se vuoi uscire davvero di prigione, esci subito, magari con la voce, diventa una canzone”.
Ebbene ci saremmo aspettati che da tutto quel dolore fosse uscito non solo un urlo ma anche un’immagine di speranza, perché è vero che “il teatro ci mette nelle condizioni di toccare la vita con le mani”, ma anche di offrire il messaggio ai molti giovani in platea che quel dolore può e deve essere incanalato e trasformato, anzi essere il motore per realizzare qualcosa di positivo per se stessi e la collettività.
Essendo, dice Perrotta, le sei storie “un luogo di passaggio…con la porta spalancata” ci auguriamo che di lì passino anche storie di speranza delle quali tutti abbiamo bisogno.
Crediti foto: Ivan Nocera.