Trani. Intervistiamo Roberto Soldatini, violoncellista, direttore d’orchestra, scrittore e professore al Conservatorio di Bari che da anni vive in barca a vela ed ora ormeggia stabilmente nel porto di Trani.
Maestro, ci racconta come si è avvicinato al mondo della musica e a quello della vela?
In verità, sono cresciuto nel mondo della musica. Mio padre era la prima tromba dell’Orchestra di Santa Cecilia. Da bambino assistevo ai suoi concerti all’aperto, ovvero in contesti più adatti ad un giovane pubblico. Devo ammettere però che non è stato facile: quando rivelai a mio padre che volevo studiare musica non fu contento e dovetti convincerlo. Mi sono ritrovato ad ascoltare di nascosto i vari strumenti dell’orchestra e con il violoncello si è creata una connessione immediata.
Quanto alla vela, invece, è una realtà che ho conosciuto quasi per caso grazie ad una serie di sinergie. Preferivo la montagna al mare ma in definitiva amavo il contatto con la natura e la sensazione di libertà che si prova quando si issano le vele.
Poi, durante i diversi traslochi, i tanti scatoloni riempiti e svuotati mi hanno fatto riflettere sulle molteplici cose inutili della vita di tutti i giorni. La barca per me ha rappresentato un po’ un ritorno all’essenziale, oltre al fatto che permette di spostarsi da un luogo ad un altro con tutta la casa.
Lei è anche scrittore e nei suoi libri parla delle cosiddette “prigioni invisibili”: ci spiega meglio cosa sono?
Ritengo che un po’ tutti ci chiudiamo in una realtà da noi costruita e da cui non riusciamo ad evadere. In quella che io definisco la società del “preservativo”, tutti vogliamo assicurarci dal rischio e nessuno rischia più.
In effetti, oggi ci creiamo delle prigioni quali il lavoro, la famiglia, ecc. in modo assolutamente inconsapevole. Ad esempio, mi è capitato spesso, a margine delle presentazioni dei miei libri, che le persone sottolineassero come avessi realizzato il loro sogno. A mia volta, quando gli chiedevo la ragione per cui non l’avessero realizzato in prima persona, si sono sempre giustificati appellandosi a queste prigioni invisibili.
Quando ha deciso di vivere in barca a vela?
Al giro di boa dei cinquant’anni ho evitato di fare l’ennesimo trasloco e, al contrario, ho seguito un corso di patente nautica, ho venduto la casa e ho comprato una barca. Inizialmente, non ero sicuro che mi sarebbe piaciuto stare in barca ma poi, non appena ci ho messo piede sopra, è stato amore a prima vista. A quel punto sono partito per la mia prima meta, senza esperienza ed in solitaria.
Fino ad ora ha pubblicato cinque manoscritti, ci può parlare del suo ultimo lavoro “Ca’ Denacia. Vivere in barca a Venezia” (Mursia Editore, ndr)?
Ho voluto testimoniare la straordinaria fortuna che ho avuto durante il momento tragico della pandemia. Ho potuto vivere una Venezia senza turisti, entrando in profondità nel tessuto sociale veneziano ed insieme ai veneziani. Una situazione forse paragonabile solo a quella della fondazione della città. Peraltro, sono stato il primo ad ottenere la residenza in barca e ciò può sembrare strano considerato che si tratta di una città di mare, ma gli ostacoli burocratici non sono stati pochi.
Poi, dall’anno scorso siamo a Trani perché insegno al Conservatorio di Bari. In verità, ero primo in graduatoria ed avrei potuto scegliere anche Napoli o Roma: ma nella prima ho già vissuto otto anni e la seconda avrebbe rappresentato il massimo sul piano lavorativo, solo che non ho interesse per la carriera. Ho scelto Trani perché è più a misura d’uomo e, come mi piace dire, è una città “portocentrica” in quanto la vita ruota tutta intorno al porto. Nonostante l’amore per Venezia, restare lì avrebbe comportato troppi sacrifici.
Quali difficoltà incontra un musicista che vive in barca a vela?
In realtà, a mio avviso, la vita in barca a vela per un musicista è un vantaggio. Se i concerti sono organizzati in prossimità del porto, non devo neanche muovermi con i bagagli. Inoltre, a volte il pubblico ha assistito al concerto direttamente dal molo ed in questi casi ho addirittura potuto utilizzare la barca come camerino.
Quando ero a Roma vivevo in un condominio e dovevo “lottare” con i vicini per studiare e fare le prove. Adesso, posso suonare anche in piena notte perché la barca è ben isolata. Naturalmente è importante assicurarsi di avere una barca di dimensioni adeguate allo strumento.
In conclusione, a cosa sta lavorando adesso?
Ho già inviato all’Editore Mursia due libri e ne stiamo programmando le pubblicazioni. Penso che per primo uscirà un lavoro ispirato ad un testo portolano, un antico manoscritto sui porti romani. Ho proprio ripercorso la rotta da Roma ad Arles, in Francia e, dunque, racconto sia della collocazione dei porti romani sia del viaggio. A questo manoscritto ho poi affiancato un altro testo di un prefetto romano che narra del suo ritorno in Gallia. Per alleggerire la lettura ho immaginato di parlare in romanesco con questo prefetto che mi accompagna durante la traversata.
L’altro libro prossimo alla pubblicazione è, invece, un’analisi della vita in barca, scritto per soddisfare la curiosità di quanti mi hanno chiesto di raccontare quest’esperienza. Ho colto l’occasione per porre l’accento sia sugli aspetti pratici, sia su quelli poetici.
Oltre a questo, posso aggiungere che sto scrivendo un altro libro che si basa su un breve racconto di mio padre riguardante le sue esperienze orchestrali. Immagino di parlare con lui dei problemi della musica del passato e del presente. In sostanza, è un dialogo tra me e mio padre in merito al suo scritto.
Crediti foto: Michele Gallucci.