“Rubedo”, la trasformazione del corpo e dell’anima nello spettacolo di Giuseppe Affinito

Napoli. Dal 28 febbraio al 2 marzo in Sala Assoli-Moscato è in scena “Rubedo”, scritto e interpretato da Giuseppe Affinito, spettacolo che gli è valso nel 2023 il Premio Serra – Campi Flegrei.
La produzione è della Casa del Contemporaneo, per la regia dello stesso Affinito, con Domenico Ingenito come aiuto regista, Enrico De Capoa e Simone Picardi alle luci e all’allestimento.
Il titolo evoca il punto finale del viaggio di trasformazione del corpo e dell’anima, caratterizzato dalla fine del buio e dall’avvento della luce ed è associato al colore che va dal rosso all’oro come del sole al tramonto o della luce calda dell’autunno, che non acceca, non fa male come quella della stagione estiva, segno di raggiunta maturità emotiva.
In una soffitta oscura e silenziosa Affinito entra in punta di piedi, senza far rumore, quasi a non voler disturbare, vestito totalmente di nero, confonde fino ad annullare la sua figura nell’assenza di luce, mentre arriva l’eco di una cantilena lontana di un bambino vivace, allora curioso del mondo sul quale si era appena affacciato e che ora invece rifugge per non rimanerne ferito.
Il silenzio però gli fa paura perché lo percepisce come uno spazio vuoto che lo costringe ad ascoltarsi e inizialmente allontana questa possibilità, non vuole, e così riempie ogni istante con parole e suoni che possano sovrastare i ricordi che ogni cosa gli sollecita.
Ma per quanto cerchi di stordirsi, nel suo cammino inciampa in molteplici oggetti usati, che pensava seppelliti, tutti appartenenti a un passato dal quale non credeva potessero riemergere, invece, non potendoli evitare inizia a selezionarli accuratamente decidendo quali custodire riponendoli in una piccola scatola di cartone scuro con su scritto in bianco “FRAGILE”.
Così riaffiora il ricordo di quando pur di essere amato e capito era disposto a rinunciare a se stesso e alla propria identità, trasformandosi e camuffandosi, con improponibili accessori come una parrucca rossa ripescata da un vecchio baule verde come dal classico cappello a cilindro e cambiando pelle come si cambia d’abito, scelto lì a caso tra quelli lasciati appesi a un attaccapanni, sovrapposti, confusi a prendere polvere (i costumi sono di Dario Biancullo).
Attivando quasi un circolo vizioso che, per timore della sofferenza dettata dal vuoto, lo spinge verso il pieno e lo porta a un movimento continuo, a un fare incessante per dimostrare di esistere.
Diventando allora chiunque tranne che se stesso pur di compiacere chi in quel momento gli dà una attenzione minima, ma che lui percepisce come enorme, salvo poi sprofondare nell’angoscia dopo essere stato per l’ennesima volta usato e poi abbandonato.
D’altronde nel suo prologo aveva già dichiarato: “Penso a tutte le volte in cui ho smesso di volermi bene, ho peccato, fallito, ho tradito me stesso, ho finto un altro corpo, un altro cuore. Sarà capitato anche a te, no? Quando ho preferito dimenticare, dimenticare di avere un nome, dimenticare chi ero per esistere solo negli occhi di chi mi guardava. Già poi, come se il dolore non avesse memoria, non avesse passato, come se bastasse così poco a riempire una mancanza. Non avere paura di essere fragili”.
E così ha lasciato indietro molto di sé: “Ti prego dimmi chi vuoi che io sia. Tutto, tutto. Io mi frantumo in un miliardo di ipotesi, di pensieri, purché tu mi riesca a vedere perché tu mi giuri che io esisto”.
Ha lasciato dietro anche le emozioni perché tra queste c’è il dolore e allora ha porzioni di vita non elaborate, che in un momento di pausa dal rumore tanto, troppo che lo circonda, ecco il silenzio che inevitabilmente le spinge, facendolo riemergere e sentire estraneo a se stesso così da costringerlo a una riflessione profonda.
Perché arriva un momento in cui bisogna affrontare i propri fantasmi, capirsi, amarsi e accettarsi per quello che si è, incuranti dei pettegolezzi altrui e dei loro attacchi omofobi, capaci solo di sentenziare anche nei salotti televisivi contro tutto quello che è diverso da loro, etichettandolo come anormale, malato.
La scoperta del sé conduce dal nero assoluto al bianco candido non solo nell’abbigliamento ma anche nella luce sempre più intensa a illuminare il palcoscenico.
Questa scoperta consapevolezza non gli fa accettare la visione pessimistica di chi lo invita a farsi gli anticorpi alle solitudini e lacerazioni della vita, perché per salvarsi, bisogna proteggersi dalla la gente che è infame; né tantomeno a credere che il decorso del tempo da solo possa far dimenticare. Ma allora, se c’è, qual è la via d’uscita?
La indica nel toccante monologo finale in cui guardando il pubblico negli occhi afferma che bisogna realizzare il fenomeno dell’esistenza, perché si sopravvive ai fantasmi, ai veleni, perché alla fine lui troverà la cura, troverà il perdono.
“E pur non sapendo se c’è un fine, bisogna pur decidere cosa fare della propria anima e fare in modo che sopravviva al di fuori di noi”.
Mentre inizialmente aveva dichiarato di rinunciare a se stesso, alla trappola del significato, lasciandosi semplicemente accadere, essere con o senza l’altro, conclude abbandonandosi completamente alla vita e al suo fluire, riconoscendo il valore anche dei momenti bui, perché peggio di tutto è astenersi dal vivere, dallo scegliere: “Deciditi, qualunque cosa tu voglia essere, lasciati accadere. I miracoli arrivano inattesi e la notte, ogni notte, porta a compimento qualche cosa”.

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