Sanremo 2025, una riflessione a caldo sulle dinamiche e sulle scelte della 75esima edizione

Sanremo. Si fa presto a dire vado a Sanremo perché, se decidi di essere ecologico o semplicemente di non spendere un capitale per attraversare l’Italia senza auto, per raggiungere la Liguria con partenza da poco più giù di Roma di ore ne impieghi almeno 9, destinate ad aumentare a dismisura a seconda del mezzo e dell’orario in cui vuoi/puoi scegliere.
Io, dopo avere vagliato tutte le opzioni possibili, ho optato per una AV Napoli – Milano Centrale con partenza alle 6.02 arrivo alle 10.45, e poi Intercity direzione Ventimiglia per evitarmi un altro cambio a Genova con arrivo previsto alle 14.40.
Perfetto, ho pensato, così riesco a ritirare il pass press, arrivare alla conferenza stampa pomeridiana delle ore 15.00, mettermi in una delle due fila che si formano ai lati del lungo tavolo bianco delle conferenze stampa in Sala Lucio Dalla e, arrivato il mio turno, potrò dire a Rocco Hunt che la sua canzone è un racconto cinematografico che sin dal primo verso e ancor di più con “Viento ‘e mare che batte pe’ dinto ‘e feneste” mi ha portato alla memoria “Scalo Marittimo” (’N ten’ ‘a Mmaculatella) di Raffaele Viviani del 1918.
Questi, “uomo tra la gente”, parlava degli ultimi e tra questi non potevano mancare gli emigranti, un po’ come avrebbe fatto alcuni anni più in là Mario Merola, con un genere diverso come quello della sceneggiata.
I protagonisti di Viviani, sebbene siano schiacciati dall’impossibilità di modificare la realtà, non si rassegnano a non tornare, quelli di Merola che lo acclamavano nei suoi tour in giro per l’ America o il Canada o l’Australia erano già rassegnati a non farlo, e per loro assistere ai suoi concerti significava per alcune ore essere a casa in Sicilia, Campania o Calabria, perché fino a 15/20 anni fa non era così semplice ed economico prendere un aereo e farlo materialmente, allora era Merola che con la sua voce li riportava lì da dove erano partiti lasciando i propri cari.
E dopo questa premessa avrei voluto chiedergli: “Rocco, i napoletani di cui parli che atteggiamento hanno nei confronti della vita? Pensi che oggi sia ancora necessario abbandonare la nostra città per cercare fortuna altrove?”.
Così come poi avrei voluto – sempre aspettando diligentemente il mio turno – chiedere a Cristicchi: “Tenerezza, impotenza e rabbia, questi i sentimenti descritti nella canzone; qual è il quarto che si è aggiunto dopo che il pubblico ha abbracciato e condiviso il tuo dolore?”
E poi: “Ho avvertito inizialmente quasi un senso di pudore nell’iniziare a cantare perché era un “metterti a nudo con un testo così intimo”. Il calore del pubblico è riuscito a farti superare questa “inadeguatezza” nella seconda esibizione all’Ariston?”
E, proseguendo con Irama, perché ormai anch’io mi sarei sciolta davanti a quell’asta e alle telecamere puntate, oltre agli obiettivi di tutte le radio e tv accese pronte a riprendere mentre sei lì a porre la domanda: “L’amore deve per forza essere struggente? Deve per forza far male per essere amore?”.
E, in attesa della risposta di Irama, avrei pensato: Non dirmi di sì, please! Perché se no non ho capito niente, e rischi di spazzare via anni di video e pillole di terapia on line postati dai più disparati guru veri o improvvisati della psicoterapia comportamentale.
Ecco poi nella mia fantasia, rispettando le regole dell’alternanza e delle pari opportunità offerte alle testate note e meno note, avrei potuto sicuramente proporre la mia ulteriore domanda al cantante che si sarebbe succeduto nella rigorosa scaletta che ci viene comunicata via email il giorno precedente.
Rileggendola sarebbe stata la volta di Willie Peyote, col quale finalmente avrei potuto affrontare il problema dei problemi di Sanremo: “Perché secondo te si è perso il valore della protesta e la maggior parte degli autori evita di schierarsi? E cosa invece spinge te a farlo?”.
Per la verità gli autori neutrali di cui parlo sopra sono solo i 7 che hanno fatto l’en plein quest’anno, tranne i tre cantautori reali, cioè coloro che le canzoni se le sono scritte e cantante: Cristicchi, Lucio Corsi e Brunori Sas e forse non è un caso che proprio questi siano tra i cinque più votati dalla Sala Stampa, non fosse altro perché hanno uno storytelling e sono credibili nell’interpretazione perché lo hanno vissuto prima di scriverlo.
Quest’anno, per chi non lo avesse ancora notato, Carlo Conti – Direttore Artistico nonché presentatore della 75esima edizione – ha voluto, a suo dire, un Festival che parlasse solo di canzoni e nel farlo ha scelto quelle che si concentrassero sul microcosmo, ossia i sentimenti non solo d’amore, anche se questo la fa sempre da padrone, e il dialogo con se stessi.
Allora, via i possibili scandali, i discorsi scomodi, quelli che possano minimamente creare una crepa nella bolla di sapone che è questa settimana sanremese e incrinare così la felicità preconfezionata, i sorrisi di plastica, i grazie che si sprecano e la parola amicizia diventata la più abusata dai co-conduttori fortemente voluti dall’amico Carlo.
Ma, Carlo, non sono forse le crepe a fare entrare la luce? Non sono i confronti che fanno nascere le idee? E le idee quelle che fanno ragionare? E il senso logico, qualunque esso sia, purché ci sia, non è forse quello che aiuta a capire? E il comprendere la realtà circostante non significa forse favorire la crescita personale e quindi quella della collettività? E questo forse non vuol dire essere indipendenti e liberi? Ed espressione di liberà non è forse la diversità? E la diversità e la possibilità di esprimerla non è forse quella che ci rende umani?
Non parlo però di quella oggi tanto sbandierata per creare nuove categorie di consumatori.
Questo è quel tipo che è stato creato dal mercato: sollecitare desideri perché si trasformino in bisogni – e il bisogno è qualcosa che si pensa di dovere soddisfare per stare bene – trasformando così quelli che sono solo potenziali in reali soggetti che spendono.
Ed ecco ad esempio schiere di uomini che si truccano, in molti casi anche meglio di noi donne. Non c’è nulla di male per carità, ma è davvero un bisogno o fanno illudere i nostri uomini che lo sia?
Non sono forse loro un target con più disponibilità economica rispetto a quello femminile che oggi avverte come necessario utilizzare il fondotinta, il blush, il rimmel, lo smalto e quanto altro prima erano proprio loro a rifiutare perché lo vedevano appannaggio solo dell’altro sesso?
E se non ci fosse il coraggio e la forza di essere se stessi non avremmo un Lucio Corsi al quale avrei chiesto: “L’immaginazione che narri nei tuoi testi è una via di fuga dal senso di inadeguatezza?”.
Invece, dopo le polemiche per la canzone di Tony Effe per il linguaggio sessista e misogino adoperato nei suoi testi, e l’annuncio plateale della sua eliminazione dalla manifestazione, lo abbiamo ritrovato, senza dire nulla, tra i 30 artisti in gara, che poi sono diventati 29 per il ritiro – forzato(?) – di Emis Skilla dopo avere ricevuto il Daspo per essere stato iscritto nel registro degli indagati dall’inchiesta “Doppia curva” della DIA.
Atteggiamento in contro tendenza rispetto ai nostri politici che, pur essendo imputati, quindi più in là della semplice notizia di reato o iscrizione nel registro degli indagati, continuano a stare seduti sulla loro poltrona di granito.
Però Carlo deve avere apprezzato che Emis non abbia voluto turbare lo scorrere sereno del Festival, tant’è che in prima serata non ha mancato di inviargli un saluto e con lui i suoi fedeli co-conduttori.
Perché la musica sia pericolosa se l’era chiesto tra i tanti Federico Fellini: “Perché un po’ di note e qualche pausa messe in fila hanno la capacità di strangolarmi di emozione?”.
Una risposta è venuta dal compositore Nicola Piovani: “La musica è pericolosa anche per me, ma in senso giocoso, dà emozioni forti, vitali che rischiano di cambiarci in genere in meglio”.
Ecco, il non fare del palco di Sanremo un’occasione per parlare dei problemi sociali e politici (nel senso etimologico dei termini, ossia quelli che interessano la societas e la polis) è forse dettato dal timore degli organizzatori che attraverso una musica che li affronti possa cambiarci in meglio, o semplicemente cambiare in una direzione che il mercato non ha scelto, verso la quale non ci ha indirizzato e, non avendolo fatto, è impreparata a trarne profitto.
E se un Tony Effe ha dichiarato di non sapere fare l’attore ma di essere se stesso e quindi di raccontare senza censure quello che vede e vive, mi domando se gli autori dei testi vedano o vivano in un mondo diverso dal mio e da quello di milioni di persone, abitato da problemi sociali, politici, umani di cui bisognerebbe parlare anche e soprattutto a Sanremo considerando gli ascolti, perché è un luogo di grandi opportunità come sottolineato stamattina da Filippo Sugar, imprenditore musicale alla guida di Sugar Holidings, gruppo italiano indipendente nell’editoria discografica e in generale nell’audiovisivo.
E invece, lo si fa si scegliendo una formula quanto più soft e polite possibile come quella del bellissimo duetto Noa/Mira con la canzone “Immagine” di J. Lennon, preceduto da un intervento video di Papa Francesco.
So che a questo punto vi aspettate le risposte degli artisti alle mie domande ma devo deludervi e la prima ad esserlo sono stata io, perché nulla è andato come previsto: sveglia alle 4,20 dopo forse un’ora di sonno, in quanto sveglia fino le 3,30 tra il festival in prima serata finito all’1,45 circa a dispetto delle promesse di Carlo e il Dopofestival.
Festival che ho visto fino ai titoli di coda per votare con scienza e conoscenza, tenendo impegnate on line il gruppo generazione Z delle nipotine e quello della mia generazione X formato dal collega in sala Lucio Dalla e un amico su Whatsapp.
Poi taxi alle 5 direzione stazione, alle 6,02 AV per Milano Centrale e arrivo a Milano con circa 10 minuti di ritardo alle 10.50, di corsa al binario per Ventimiglia e arrivo alle 14,50 circa in stazione, perché per uscire bisogna attraversare prima un lungo tunnel sotterraneo affollatissimo, e finalmente eccomi sotto le nuvole della città dei fiori tra auto private e a noleggio parcheggiate come potevano nelle curve antistanti l’uscita.
Poi, è iniziato lo slalom tra la folla per raggiungere la galleria – accanto all’ingresso dell’Ariston – dove ritirare il pass press.
Primo intoppo sotto la grande scritta bianca su sfondo grigio topo “Sanremo2025” che delimita la piazza con accanto il Palafiori: una fila enorme per passare il metal detector, così domando come fare per evitarmela dal momento che devo “soltanto” andare dall’altra parte della piazza, ritirare il pass e tornare al Palafiori per la Conferenza Stampa.
Ma niente, da lì non c’è verso di passare, così un agente mi consiglia di circumnavigare la piazza e infilarmi in una stradina laterale; seguo il consiglio e, trascinandomi il trolley, la borsa del pc e la borsetta mentre inizia a piovere, ma sono solo due gocce rispetto a quelle di qualche ora dopo, mi incammino, trovo la stradina grazie a Google Maps ma non sono l’unica ad avere avuto la stessa idea e in cima mi trovo i Carabinieri che mi invitano a tornare indietro anche se devo ritirare il pass e correre in Conferenza Stampa.
Così torno indietro, provo da un altro varco, passo il metal detector con apertura di borsa, borsetta e trolley (con il rischio di vedermi sequestrare il mio Megamare) e, finalmente, in un bagno di folla arrivo in galleria, firmo e posso mettere al collo il cartellino, che mi dà la possibilità di evitare che mi aprano di nuovo il trolley.
Terzo piano Sala Lucio Dalla, tra una nube di aria calda viziata, un centinaio di giornalisti, i più fortunati delle Radio anche quelle meno note e di qualche trasmissione televisiva, stretti nei loro posti uno accanto all’altro appoggiati sulle scrivanie tipo Ikea, tutti gli altri a guadagnarsi una sedia nelle retrovie davanti i bagni (nel senso letterale, a separaci una parete). Mi hanno spiegato che la RAI, Mediaset e le testate più importanti hanno una sala tutta loro.
Comunque, sono felice di essere almeno dentro anche se con un’ora abbondante di ritardo rispetto alle previsioni, quindi Rocco Hunt e qualcun altro sono andati, spero nei prossimi e mi posiziono in una delle due file.
Ma in breve capisco che il tempo che ciascun cantante dedica a questa sala è di 20 minuti secchi, quindi chi è davanti riesce quelli dietro si attaccano.
Allora rinuncio perché sento che mi sta montando un mal di testa forte, scavo nella valigia alla ricerca di un Ketadol che trovo ma, una volta ingoiato, non fa che peggiorare la situazione.
Decido che forse è il caso di riposarmi e ricominciare il giorno dopo ma intanto per raggiungere casa sono costretta a un altro fastidioso bagno di folla di ragazzine urlanti nel vedere passare un’auto con i vetri scuri che trasporta forse un cantante di cui non conoscono neanche il nome, poi fan in fila all’uscita degli Hotel, e finalmente sono sul lungomare mentre inizia a piovere seriamente e mi imbatto nel truck dello chef Ruben arrivato a Sanremo con Tony Effe.
Mi faccio coccolare da lui e dalle sue pinse romane strabuone mentre le prepara con stracciatella, alici e burrata l’una e salsa al pecorino e un olio alla mentuccia l’altra, tutto hand made e scherziamo sul mio mal di testa.
Poi, è la volta di cercare la strada di casa e ripenso a ciò che ho visto e sentito, molto diverso da quello che avevo immaginato, e di come la musica offerta non sia altro che quella che le case discografiche ci vogliono proporre, facendolo passare questo che è solo un particolare come invece il generale, l’assoluto, come se fosse la musica italiana per antonomasia e in fondo l’atmosfera da circo o baraccone fuori dal Teatro Ariston non è che il riflesso di questo fenomeno.
Ma la musica vera è altro o almeno è molto altro.
Ho scoperto che ci sono diversi cantanti/musicisti, cantautori che cercano di farsi notare e che ogni anno, con un po’ di soldi messi da parte facendo i lavori più disparati, vengono a Sanremo e girano per le radio per proporsi per un’intervista o per suonare un loro pezzo, nella speranza così di avere un’opportunità e che quella si trasformi in una proposta se non lavorativa (perché difficilmente vengono retribuiti), almeno un’occasione per proporre la propria musica.
Come ad esempio Alessandra Fichera in arte Alex AllyFy che, come ogni anno, qui a Sanremo è arrivata in treno dalla provincia di Catania in compagnia del suo ukulele e che sta conducendo una personale battaglia contro l’ulteriore abbassamento del limite di età per partecipare a Sanremo Giovani che Amadeus aveva portato nel 2021 da 36 a 32 anni, poi fino ai 29 anni e Carlo Conti vuole scendere ancora fino ai 26 di anni.
In questo modo non si considera che la creatività richiede sensibilità ed esperienza, e quindi l’artista deve avere avuto il tempo di crescere e maturare, sono diversi gli esempi di grandi in tutti gli ambiti che hanno avuto successo o hanno iniziato a scrivere, suonare, dipingere, produrre arte molto più avanti negli anni.
Di Alex ho ascoltato “26 & Dreams”, un EP di 5 tracce ognuna delle quali affronta una tema legato a quello più grande della salute mentale: “Since you left me” parla della solitudine, “London No-stalgie” della depressione, “Help me today” la richiesta di aiuto e “Someone Stole my piano” la rinascita.
Allora, non mi resta che girare per Sanremo alla ricerca di altre Alex che con tenacia e grandi sacrifici inseguono il loro sogno, perché è l’unico modo che conoscono per esprimere il loro mondo e vogliono farlo in libertà, per dire cosa non va e cosa andrebbe cambiato in quello di oggi.

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