Roma. Approda il prossimo 29 gennaio alle ore 20, al Teatro Eliseo, “Shoah”, un monologo, una esecuzione polifonica, un “canto recitato” a più voci scritto da Giuseppe Manfridi e ispirato a “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Manuele Morgese presterà la voce ai diversi personaggi, testimoni e narratori dei terribili e drammatici episodi legati alla Shoah, fondendosi, attraverso le filastrocche di nera luce, alla musica della tromba di Fabrizio Bosso e del pianoforte di Julian Oliver Mazzariello nel disegno registico di Livio Galassi.
Racconta Livio Galassi nelle note di regia: “Tutto è stato detto e tutto resta ancora da dire: esaurite le più atroci parole a descrivere l’orrore del più abominevole crimine che la storia ricordi, non esistono parole per comprenderne il recondito perché. Basta il cupo odio che intatto ha attraversato i secoli fino a noi, fomentato da una religione che si è impossessata del dio di Israele per reinventarlo a suo pro, perseguitando chi non si piegava alle sue manomissioni e voleva conservare integre le proprie antiche credenze, i propri miti, la propria appartenenza, la propria – pericolosa – “diversità”? Forse un fondo di nera frustrazione ha irritato e ingelosito il confronto con un popolo che sempre si è nobilmente rialzato dai reiterati soprusi, aggrappandosi fiero alla sua antica e mai rinnegata cultura. Mi chiedo, e vi chiedo – e lo chiedo soprattutto alla gretta imbecillità degli antisemiti: se togliamo alla storia del mondo – religiosa, etica, sociale, scientifica – gli ebrei Mosheh, Abhrahm, Yehoshua ben Yosef, Marx, Freud, Einstein… che ne sarebbe?… E come spiegare, come giustificare il complice silenzio di tutti? Perlomeno di tutti quelli che sapevano, che intuivano, e che potevano incidere con il loro potere? Con quale inaudita impudenza si può testimoniare l’avvenuta ascesa in cielo di una madre vergine, e non la contemporanea caduta di milioni di innocenti negli abissi della umana abiezione? Anche dalla Tiburtina, da una stazione nella città del Cristo in terra, partivano i treni per lo sterminio senza che nessun anatema li arrestasse. Doloroso e difficile è stato per l’autore immergersi in questo oceano di amarezza. Come uscirne senza scrivere di fatti e di giudizi che poco o nulla aggiungono al già scritto, al già detto, al risaputo? Ma la luce della poesia è stata il faro che ha illuminato l’approdo. Una luce nera è il dolente ossimoro che si riverbera nella struggente scrittura, la quale sfiora appena i fatti e si dilata nello smarrimento esistenziale che da quei fatti scaturisce. Parole che si frantumano ai singhiozzi della mente, si disperdono e si ricongiungono a tracciare la trama di un malessere senza riscatto e senza conforto. Da quella pesante putredine sublimano, esalano leggere pur trattenendo l’atroce ricordo, evanescenti come il fumo che usciva da quei macabri camini e che, testimonianza dell’eccidio, portava lieve con sé le anime delle vittime per liberarle in un cielo senza luce e senza dei.
Dolorosa e difficile l’impostazione registica. Può questa immane tragedia essere trattenuta in una struttura estetica? E quale?… Quella con meno estetismi, ho pensato. Quella che non descrive ma suggerisce: una “non scena” che disegna percorsi mentali, che imprigionano o si schiudono alla speranza; una recitazione prosciugata che non cerca compiacimenti né virtuosismi; una musica eletta che non cerca melodie; un tentativo di coinvolgerci tutti in un ineludibile senso di colpa”.