Roma. Da più di un decennio si suole parlare di sharing economy quale nuovo modello economico della società contemporanea. Si tratta letteralmente di “economia della condivisione”, ovvero di un sistema che non si fonda sulla produttività e sulla proprietà dei beni ma sulla condivisione degli stessi, in cui quindi la partecipazione, la fiducia e le relazioni tra le persone risultano i pilastri fondamentali.
Si condividono così sia beni materiali come la casa o l’auto sia beni immateriali come la musica o le informazioni, all’insegna di un disegno economico sostenibile, rispettoso dell’ambiente e sganciato dalle logiche dei consumi di massa. In altre parole, la sharing economy non avrebbe quale perno fondamentale il profitto.
Il concetto era molto caro al Presidente Obama (Harvard Business Review, ndr) e anche in Europa ha avuto grandi sviluppi durante la sua presidenza: secondo uno studio della Commissione Europea del 2015 (“Consumer Intelligence Series: The Sharing economy”. Pwc 2015), infatti, la sharing economy entro il 2025 sarebbe stata in grado di accrescere le proprie entrate da 13 miliardi a 300 miliardi di euro. Dati che testimoniavano l’importante crescita del fenomeno. Oggi il contesto socio-economico è cambiato, ma restano tantissime le forme di condivisione possibili. Il music sharing è sicuramente uno dei più importanti esempi: basti pensare alle molte piattaforme che erogano servizi di streaming musicale, da Spotify ad Apple Music, da Deezer ad Amazon Music e ben presto anche TikTok rilascerà la sua app.
Esiste poi il car sharing con i servizi delle aziende Enjoy , Bla-Bla Car o, per certi versi, anche Uber. Ancora, lo sharing si è sviluppato quale forma di mobilità sostenibile con il bike sharing o i servizi di condivisione dei monopattini. L’house sharing ha permesso la condivisione della propria casa: celebre è il servizio offerto da Airbnb. Il coworking consente la condivisione di spazi di lavoro e così via. Ad ogni modo, il successo maggiore si è registrato proprio in campo musicale. Probabilmente ciò si spiega in virtù del fatto che si può usufruire dei beni immateriali in modo propriamente condiviso. In sostanza, la stessa canzone può essere ascoltata singolarmente da più utenti contemporaneamente. Al contrario, più persone nello stesso momento non possono condividere la medesima bici o usufruire dello stesso posto letto.
All’alba della diffusione di Spotify, la piattaforma intendeva realizzare una galassia che permettesse alla sua community di condividere le rispettive librerie musicali private. Si trattava di un modo per contrastare i diffusi fenomeni di pirateria che nei primi anni 2000 hanno causato imponenti perdite al settore. Ad oggi, però, i Termini e Condizioni d’Uso della Piattaforma stabiliscono quanto segue: “L’utente è l’unico responsabile di tutti i contenuti da lui pubblicati. L’utente conferma che, rispetto a qualsiasi Contenuto pubblicato nell’ambito del servizio Spotify, (1) possiede o ha il diritto di pubblicare tale Contenuto utente; (2) tale Contenuto utente, o il suo utilizzo da parte di Spotify ai sensi della licenza concessa di seguito, non: (i) viola i presenti Termini, le leggi applicabili, la proprietà intellettuale o altri diritti di terze parti; o (ii) tale Contenuto utente non implica alcuna affiliazione o approvazione da parte di Spotify o di qualsiasi artista, band, etichetta o altro individuo o entità senza il previo consenso scritto di Spotify o di tale individuo o entità”.
In sostanza, come spesso accade con i big del web, Spotify chiarisce che l’azienda mette soltanto a disposizione uno spazio virtuale per la pubblicazione di contenuti di cui sono responsabili soltanto gli utenti. In definitiva, non si realizza alcuna forma di condivisione della musica in senso tecnico. Più che altro, si possono pubblicare dei contenuti musicali di cui restano titolari e responsabili gli utenti che li hanno caricati. La “condivisione” con la community corrisponde in sostanza alla semplice pubblicazione del contenuto.
È evidente la distanza dai principi della sharing economy. Spotify eroga un servizio di streaming musicale, anche a pagamento, allontanandosi dall’economia della condivisione e riavvicinandosi invece ad un’economia basata sullo scambio. Si segnala poi che al suo lancio la app fu salutata con favore dalla maggioranza della comunità artistico-musicale, proponendosi di essere un importante strumento di promozione per gli artisti indipendenti e di riequilibrio del mercato discografico. Al contrario, però, è noto che oggi non si conoscono i dati dei profitti dei musicisti per ogni stream del brano.