Napoli. Dal 18 gennaio, per dieci giorni, è possibile assistere al Teatro San Ferdinando a “Storia di un oblio”, atto unico di Laurent Mauvignier nella traduzione di Yasmina Melaouah, per la regia del maestro Roberto Andò, interpretato magnificamente da Vincenzo Pirrotta.
Il fatto, realmente accaduto in Francia, ha colpito la sensibilità dell’autore francese a tal punto da dedicargli questo monologo di grande forza espressiva, recitato tutto d’un fiato.
Già con la modifica del titolo originario, da “Quel che io chiamo oblio” all’italiano “Storia di un oblio”, si è voluta sottolineare l’universalità dei sentimenti di indignazione e pietà per l’uomo pestato a morte da quattro vigilantes per avere sorseggiato una lattina di birra prima di passare alla cassa del supermercato.
Il palcoscenico al San Ferdinando è stato spostato in platea, ricavato da un rettangolo lasciato libero dalle consuete poltrone rosse, proprio per ridurre la distanza fisica prima ed emotiva poi tra l’attore e gli spettatori, fino ad annullarla.
Al centro sopra un blocco di marmo, che ricorda quello del tavolo di un obitorio, il cadavere dell’uomo ammazzato di botte, con il suo numerino attaccato all’alluce, chiuso nella classica sacca nera. Al lato, su una sedia anch’essa nera, il fratello (Vincenzo Pirrotta) in completo pure nero, ripiegato su se stesso con la testa china e il pubblico a fargli da cornice su tutti e quattro i lati.
È il racconto minuzioso di una morte assurda, inaccettabile, in cui la voce è solo quella del fratello maggiore e dei suoi pensieri, resi attraverso una voce fuori campo.
Questi si interroga su come sia possibile che la vita valga meno di una lattina di birra, di come sia possibile che, senza chiedergli nulla, i vigilantes si siano divertiti a prenderlo a calci e pugni, fino a schiacciargli la testa con la punta della scarpa, come si fa con quella di un serpente, di come sia possibile morire nell’indifferenza della gente che si è limitata a guardare e se interrogata non ha visto, tanto lo aveva già giudicato drogato e frocio solo dagli abiti che indossava: la maglietta gialla, il pantalone nero della tuta con le tre righe laterali e le scarpe da ginnastica ai piedi.
Pur essendo un atto unico si assiste a una scomposizione in tre parti della narrazione, sottolineata da un cambio d’abito: l’inizio doloroso del racconto, quasi in sordina, per poi accelerare il ritmo e aumentare il tono, accompagnando le parole con una corsa intorno al feretro, a mimare quella che sarebbe dovuta essere la fuga del fratello che, invece, non c’è stata, perché non avrebbe mai immaginato di morire per futili motivi.
In seguito, Pirrotta affannato si toglie la giacca e la maglia e, rimasto torso nudo, dà vita alla seconda parte del monologo, in cui si sdraia prima accanto al feretro e poi, avvicinandosi sempre di più al pubblico, inizia a interrogarsi e ad interrogarlo sull’accaduto e sul valore della vita di quell’uomo che potrebbe essere il fratello di ciascuno degli spettatori che inizia ad additare.
La terza e ultima parte vede Pirrotta togliersi i pantaloni del completo, indossare la maglietta, il pantalone della tuta e le scarpe da ginnastica del fratello minore e mostrare al pubblico la fotografia del suo volto livido: è quella di Stefano Cucchi a cui, personalmente, il pensiero era andato sin dalle prime battute.
Poi, in un ultimo crescendo, Pirrotta inizia ad abbracciare e baciare il pubblico perché senta la sua carne viva e avverta la sua paura, che si diffonde in sala insieme a una evidente commozione, mentre ripete all’infinito che lui non ha paura di morire perché ha amato tanto in questa vita.
Ritrova, infine, la lattina, la raccoglie, la guarda e con uno sguardo che tradisce il suo terrore i riflettori si spengono. Da segnalare anche l’accompagnamento musicale originale.
Meritatissimo il lungo applauso che ne è seguito, interrotto solo dall’omaggio che Vincenzo Pirrotta ha voluto rendere all’amico e maestro Enzo Moscato, al quale ci associamo.