Modena. Con lo spettacolo “Turandot” prosegue il dialogo di Emilia Romagna Teatro Fondazione con la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, iniziato nel 2015 con Faust: in questa occasione si aggiunge il Teatro Metastasio di Prato, per accogliere insieme la sfida di rinnovare il vivo confronto teatrale tra Asia ed Europa.
“Turandot”, che ha debuttato a Pechino nel dicembre 2018, prosegue la sua tournée al Teatro Storchi di Modena dal 23 al 27 gennaio: per queste date gode del riconoscimento del patrocinio dell’Ambasciata Cinese in Italia e si svolge nell’ambito dei festeggiamenti del Capodanno Cinese in Italia.
Favola per antonomasia dell’esotismo orientale, ricca di colpi di scena, agnizioni e promesse ferali, “Turandot” è divenuta nel tempo (da Carlo Gozzi a Giacomo Puccini) l’emblema del nostro immaginario sulla Cina.
Ora, per la prima volta, il regista italiano Marco Plini si confronta con la tradizione dell’Opera di Pechino, rivisitando la favola del principe Calàf e dell’algida principessa cinese Turandot. “Il fascino dello spettacolo – afferma Marco Plini – è il fascino di una bellissima favola per bambini animata da imperatori, principi e principesse tutti molto rispettosi dei loro ruoli. È così che l’ho approcciata, nel rispetto di un teatro secolare che porta sul palcoscenico un’antropologia viva, con la soggezione del novizio invitato a partecipare a un rito antico e misterioso. Turandot nasce da questo rispetto, da questa curiosità e da questo mistero. Ho immaginato di portare il pubblico europeo a entrare in un sogno bellissimo e colorato che non possiamo capire fino in fondo, ma le cui immagini ci attraggono e risucchiano in un vortice di colori brillanti e suoni rumorosissimi, che man mano prendono senso, un senso profondo, atavico, che ci colpisce nel profondo ma a cui non riusciamo a dare un nome”.
Lo spettacolo è un sottile gioco di specchi tra due mondi, entrambi eredi di civiltà antiche, sofisticate e misteriose a un tempo. Da un lato, la raffinata arte attoriale dell’Opera di Pechino e dall’altra lo sguardo prospettico e l’abilità di creare scene illusionistiche d’invenzione italiana, capacità divenute patrimonio del teatro europeo.
“L’incontro tra Italia e Cina sul palcoscenico – prosegue sempre il regista – è stato pensato come uno scambio e un confronto di tradizioni tra oriente e occidente, da un lato l’Opera di Pechino, dall’altro il mondo dell’opera lirica, con i suoi impianti scenici mastodontici e la concettualità a cui la nostra tradizione melodrammatica si è aperta attraverso il teatro di regia novecentesco. Ho immaginato un giardino della classicità che potrebbe ricordare i quadri di Delvaux, in cui sorge un palazzo fatto solo di colonne di marmo. In questo giardino, anziché gli uomini piccolo-borghesi di Delvaux, arrivano i personaggi mitici della tradizione cinese, un po’ spiazzati, certo, ma ugualmente compresi nel loro ruolo di imperatori e principesse, con i loro movimenti codificati e immutabili nel tempo per rappresentare il desiderio di vendetta e la follia omicida di Turandot”.
In scena, a fianco degli attori dell’Opera di Pechino, un ensemble di musicisti italiani e cinesi esegue le musiche originali composte da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Qiu Xiaobo. “Può sembrare una grande sfida – affermano Ceccarelli e Cipriani – scrivere una nuova musica per Turandot. In questo lavoro il nostro proposito è stato innanzitutto quello di confrontarci, come compositori, con una tradizione secolare come quella dell’opera di Pechino, con i suoi attori e musicisti, con il suo retaggio musicale. Questa musica ha variazioni ritmiche inaspettate in una relazione indissolubile con il movimento e con il fraseggio degli attori, e non c’è alcuna continuità con l’opera italiana. Ci siamo dunque posti di fronte a questo mondo così organico fra testo, teatro, movimento fisico e musica cinese, creando un secondo strato sonoro, parallelo ma completamente integrato, laddove l’espansione timbrica degli strumenti cinesi e di quelli occidentali ne coglie elementi comuni, come se gli uni avessero davvero bisogno degli altri per evolversi verso lidi nuovi”.
La Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, fondata nel gennaio 1955, è una organizzazione nazionale che fa capo direttamente al Ministero della Cultura della Repubblica Popolare Cinese. Il primo presidente fu il grande maestro Mei Lanfang. Attualmente l’Opera di Pechino consiste di tre troupes. Lo scambio culturale è uno dei maggiori obiettivi della Compagnia, che si è esibita in tutto il mondo, in oltre 50 paesi e in 5 continenti, guadagnando una straordinaria fama internazionale. Attraverso la sua attività l’Opera di Pechino ha contribuito a promuovere gli scambi culturali fra il popolo cinese e i popoli del mondo intero.
Marco Plini debutta come regista nel 2002 con lo spettacolo Risveglio di Primavera di Frank Wedekind al Teatro Stabile di Torino. Nel 2004 presenta alla Biennale Teatro a Venezia, Purificati di Sarah Kane. Dirige Il lutto si addice a Elettra di Eugène O’Neil (2005) al Festival del Teatro Romano di Trieste, Turisti e Soldatini di Wole Soyinka e Benvenuti in California di Francesca Angeli per il Centro Teatrale Bresciano. Dal 2005 alterna l’attività di regia all’insegnamento, iniziando a collaborare continuativamente come docente di recitazione per la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e nei Corsi di Alta Formazione Teatrale organizzati da Emilia Romagna Teatro Fondazione. Nel 2012, sempre per ERT Fondazione, dirige il Cantiere per attori di formazione/produzione che ha come esito lo spettacolo Ifigenia in Aulide da Euripide. Stretta è dunque la sua collaborazione con ERT, per cui nel 2011 realizza lo spettacolo Freddo di Lars Noren, cui segue La Serra di Harold Pinter (2015) in coproduzione con il Teatro Metastasio di Prato. Per il Centro Teatrale MA MI MO nel 2012 firma la regia di Himmelweg di J. Mayorga e nel 2016 di Coriolano di W. Shakespeare. Per il Teatro Stabile dell’Umbria ha diretto nel 2015 Thyssen di Carolina Balucani.
Nel suo percorso artistico continua ad alternare l’interesse per la drammaturga contemporanea alla rivisitazione dei classici in un’ottica moderna e strettamente collegata al presente e alla riflessione sulla società.