Milano. Per la prima volta protagonista di una produzione del Piccolo (insieme a Jolefilm), Marco Paolini porta in scena il suo “Ulisse”. Dal 14 marzo al 18 aprile, al Teatro Strehler, “Nel tempo degli dèi. Il calzolaio di Ulisse” di Marco Paolini e Francesco Niccolini, con la regia di Gabriele Vacis. In un tempo di dèi ed eroi, Omero raccontava la storia di Ulisse. Oggi è il tempo delle odissee di uomini in balia di dèi, che non vivono più sull’Olimpo ma hanno assunto le fattezze di un occidente artefice, irrazionale e capriccioso, del destino altrui.
Da alcuni anni Marco Paolini esplora il personaggio di Ulisse. I primi passi risalgono al 2003, nel sito archeologico di Carsulae, con le improvvisazioni musicali di Giorgio Gaslini e Uri Caine e la scena di Arnaldo Pomodoro. Nel 2013, a Milano, all’interno di un ciclo di incontri parallelo alle repliche di “Odyssey” di Bob Wilson al Teatro Strehler, aveva proposto al pubblico una rilettura di quel lavoro. Oggi, con la collaborazione alla scrittura di Francesco Niccolini e la regia di Gabriele Vacis, in una produzione Piccolo Teatro di Milano e Jolefilm, quella narrazione ha trovato il suo centro negli dèi, burattinai del destino umano. Il calzolaio del sottotitolo è l’aedo, che cuce la storia intorno al corpo e alla personalità di Ulisse come l’artigiano fa con un paio di scarpe.
“Lavorare per la prima volta in una produzione del Piccolo – dichiara Paolini –, idea suggerita da un rapporto di lunga frequentazione e stima, è la sfida di mettere da parte la mia abitudine a navigare “in solitario” per vivere insieme l’avventura di creare uno spettacolo nuovo”.
Ex guerriero ed eroe, ex aedo, Ulisse si è ridotto a calzolaio viandante, che da dieci anni cammina verso non si sa dove con un remo in spalla, secondo la profezia che il fantasma di Tiresia, l’indovino cieco, gli fa nel suo viaggio nell’al di là, narrato del X canto dell’Odissea.
Questo Ulisse pellegrino e invecchiato non ama svelare la propria identità e tesse parole simili al vero. Si nasconde, inventa storie alle quali non solo finisce col credere, ma che diventano realtà e addirittura mito.
È partito all’alba che segue la gara dell’arco e la strage dei pretendenti: ha avuto solo il tempo di un lungo pianto liberatorio con il figlio Telemaco e una notte d’amore con Penelope, e subito riparte. Un destino già scritto e la volontà degli dèi gli hanno imposto di massacrare i 108 giovani principi achei, che gli hanno invaso la casa, insidiato la moglie, e le 12 ancelle che agli invasori si sono concesse. Potrebbe dichiararsi innocente perché così gli hanno dettato gli dèi, che considerano quel sangue un rito sacrificale, ma Ulisse non ci sta. Impossibilitato a sottrarsi a quel destino di morte e violenza, e dopo essersi macchiato di quel sangue, ecco il colpo di scena: invece di godersi la vittoria con l’annessa protezione divina (Atena e Zeus sono al suo fianco a benedirlo prima, durante e dopo la strage), si autoinfligge la più dura delle punizioni e denuncia come crimine quello che gli dèi dell’Olimpo considerano un’ecatombe, cioè il più grande sacrificio che un essere umano possa loro offrire. Così, dopo 20 anni di assenza e disavventure, Ulisse si obbliga a un nuovo esilio. Rinuncia al governo, abbandona la famiglia e il regno, ma soprattutto abbandona gli dèi che lo vorrebbero trionfante e immortale: si rivolta contro i loro capricci, la loro ambigua volontà e non ha paura di pagare il prezzo della propria scelta.
Questo e molto altro, sotto le mentite spoglie di un calzolaio – anzi, del calzolaio di Ulisse, uno straniero dai sandali sdruciti, indurito dagli anni, dall’età, dai viaggi e dai naufragi – racconta il protagonista ad un giovanissimo capraio incontrato apparentemente per caso.